In occasione del doppio omaggio a Eve Heller e Peter Tscherkassky, che Filmmaker realizza in collaborazione con Atelier Impopulaire, si è tenuta all’ Università IULM una Masterclass durante la quale gli studenti hanno avuto l’occasione di un confronto diretto con i due cineasti
L’esperienza di Peter Tscherkassky inizia alla fine degli anni Settanta con la Super8, molto diffusa all’epoca. Per il decennio successivo questo è il mezzo di cui si serve per girare i suoi film prima di passare al 35mm. Durante questi anni, studia il processo di sviluppo del negativo in camera oscura e dal 1985, con Manufraktur, inizia la sua sperimentazione con il found footage. Questa la breve nota biografica con cui si presenta il cineasta viennese all’uditorio. «Quando ho cominciato a lavorare con la tecnica del found footage, l’idea iniziale era di fare una copia della pellicola originale» spiega. «Ma fin da subito ho pensato che valesse la pena di modificare il tempo della narrazione, dilatarlo, spezzarlo. E per ottenere questo, dovevo fare più copie con cui poi avrei avuto la possibilità di modificare le immagini, sovrapponendole, accostandole, usandole a rovescio». Se i primi lavori sono a colori, Tscherkassky presto decide di utilizzare il bianco e nero, in parte per ragioni pratiche, ma anche perché l’incontro tra luce e buio, che lascia una traccia ogni volta diversa sulla pellicola, lo affascina sempre di più.
Così nel finale di L’Arrivée (1998), dove il bianco e il nero si corrono incontro e si congiungono nel bacio di Catherine Deneuve e Omar Sharif. Questo film è un omaggio ai fratelli Lumière e a quel film che fece scappare gli spettatori dalla sala, spaventandoli a morte (L'arrivée d'un train en gare de la Ciotat, 1896). Le prime immagini mostrano l’arrivo del film stesso, e subito dopo compare un treno che entra in collisione con un altro causando una “tempesta di materiale” cui segue l’happy-end. Il film riassume ciò che il cinema ha portato dinanzi al nostro sguardo, la violenza e le emozioni. «Ho fatto due copie dei fotogrammi del treno e ho fatto scorrere le due pellicole incrociandole» racconta Tscherkassky. Il risultato è quello di due immagini speculari che convergono verso il centro dello schermo.
Un giorno, osservando dei ragazzi giocare in strada con una luce, Tscherkassky decide di sperimentare l’uso del fascio luminoso più preciso e indirizzabile per impressionare le pellicole: un laser. «Con Outer Space (1999) mi sono interrogato sull’altro spazio, quello che non vediamo mai sullo schermo». In questa occasione, il materiale da cui partire sono state le immagini di The Entity (1981), per poi sconvolgerne totalmente le prospettive, gli spazi e i tempi: «Copiavo i fotogrammi su strisce di un metro e li impressionavo uno per uno, con la luce laser per un paio di secondi». Altro passaggio nel percorso del cineasta austriaco, quello al cinemascope: si amplia allora la superficie su cui lavorare. Il regista sovrappone le pellicole, arrivando a cinque livelli di immagini, crea maschere sui fotogrammi, incide le strisce con aghi e le tratta con sale grosso.
L’intervento di Eve Heller comincia con una dichiarazione d’amore al cinema quale mezzo per creare significati con l’immaginazione e dare senso al reale. La filmmaker americana, viennese d’adozione, concilia cinema e fotografia. Utilizza la stampante ottica per fotografare le pellicole sui cui successivamente lavora.
Last Lost è la sua prima opera, risultato di un lavoro su Chimp’s Jamboree (1935). «Mi sono concentrata sui dettagli del film per ricostruire la narrazione che avevo in mente fotografando ogni singolo fotogramma, avvicinando e allontanando la macchina all’originale». Lo scimpanzé diventa il protagonista di una nuova storia nella quale si alterna il suo punto di vista soggettivo allo sguardo del mondo su di lui. L’amore per la tecnica fotografica emerge dalla sovrapposizione di due pellicole che ricorda la tecnica fotografica della doppia esposizione. «Il film non usa il linguaggio verbale ma riesce a comunicare il suo senso attraverso le immagini e pochi suoni» conclude Heller.
Anche la regista omaggia i fratelli Lumière con Her Glacial Speed (1999), riprendendo la celebre visione degli operai in uscita dalla fabbrica. «Sono rimasta tutto il giorno seduta al tavolo di un ristorante filmando le persone che passavano e talvolta si fermavano a specchiarsi nella vetrata. Non potevano vedermi ma io vedevo loro». La scelta del bianco e del nero, elimina la distrazione del colore. Il film non ha una trama ma solo immagini suggestive che riflettono l’essenza dell’individuo. Lo scorrere della vita newyorkese si alterna a riprese macroscopiche di oggetti, metafora dell’andare oltre la superficie per esplorare l’interiorità. La passione per la fotografia ispira l’idea di questa ripresa: la volontà è quella di catturare il momento in cui le persone si confrontano con la propria immagine.
La lectio magistralis volge al termine con il sapore dolce di una riflessione che valorizza l’elemento umano travolto dallo scorrere del tempo. Un’occasione che ha offerto ai registi l’opportunità di spiegare il proprio intento dietro ogni scelta stilistica, aprendo la strada a nuove riflessioni e soprattutto a una nuova fruizione.
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